Le foreste furono i primi templi dell’Uomo. Fu nel cuore profondo delle selve intricate che l’umanità esplorò per la prima volta Dio. Un viaggio sulle tracce della spiritualità a cavallo di Romagna e Toscana.
In Italia c’è una gigantesca foresta che cresce da migliaia di anni, potente e profonda, tra Emilia Romagna e Toscana. Trentaseimila ettari di giganti millenari che affondano le radici nella spina dorsale degli Appennini e dalle cui viscere pietrose sgorgano l’Arno e il Tevere. Queste foreste custodiscono silenziose la fede dei monaci, degli eremiti e degli anacoreti che nel Medioevo si appartarono dal mondo per ritrovare il contatto con Dio.
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La Foresta della Lama
Vegliano quel territorio selvaggio conteso nel corso della Storia tra Stato Pontificio e Granducato di Toscana. Silenziosi titani che protessero i partigiani quando, durante la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia si spaccò in due sulla linea gotica; a sud gli Alleati, a nord l’esercito nazi-fascista. Risalendo da Forlì la dorsale appenninica la roccia si inselva tra la marna friabile e i ruvidi spigoli di arenaria. Su queste groppe selvagge cresce la Foresta della Lama, il tempio primordiale della Natura, un santuario di alberi millenari, dai cui alti pennacchi filtrano sottili corpuscoli di luce. In autunno la terra umida e scura si ammanta in un tappeto di foglie; un velo rosso che corre su e giù per i pendii ovattando ogni rumore, ogni sospiro, in un silenzio religioso.
Dall’alba dei tempi la foresta è il tempio primordiale dell’Uomo, che la anima di divinità sospese a metà tra il mondo naturale e quello antropizzato; il luogo catartico dove l’Uomo si ritira dalla vita comune per cercare la sua spiritualità. Un recinto sacro e inviolabile dove le leggi della collettività non riescono a penetrare. L’arena che le pone in discussione. “ Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir cos’era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte” scriveva Dante nel I canto dell’Inferno. La foresta, la selva, è lo spazio misterioso e sacro che obietta, rovescia e ricalibra il pensiero razionale. E’ il luogo dove, avendo smarrita la via, ci si “inselva” fin nelle profonde viscere dell’inconscio; per ritrovar infine la luce. Nella cultura europea il bosco ha una funzione simbolica e purificatrice. Religione, arte, musica e letteratura cantano di ninfe che abitano l’anima degli alberi, cespugli di mirto che sanguinano quando recisi, creature a metà tra il caprino e l’umano come i Fauni e il dio Pan. Ovidio, nelle Metamorfosi, racconta dell’amore tra Apollo e Dafne; Peneo, dio dei boschi, trasforma la giovane figlia consacrata a Diana in alloro, per scongiurarne l’amore con Apollo. Lorenzo Bernini rappresentò magistralmente l’evento nell’omonimo gruppo scultore conservato alla Galleria Borghese di Roma; Dafne che si volge sgomenta verso l’amato, le dita rivolte verso il cielo che si mutano in rami selvaggi. Per l’Uomo l’albero è sempre stato tramite col mondo divino; l’alloro sacro di Apollo, l’ulivo della pace, la palma del martirio, il fico dell’Eden, la quercia dei sacerdoti druidi celtici, la vite di Cristo e di Dionisio.
E’ in autunno che le Foreste Casentinesi vestono la loro arcana valenza simbolica.
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Radici centenarie
La nebbia avanza bassa e densa avvolgendo i tronchi degli alberi e rimescolando il concetto di spazio e tempo. Gli abeti si ergono come titani, bucano l’ombra per raggiungere quella luce che filtra lirica tra gli aghi appuntiti. In basso il Sole fa fatica a penetrare e la luce danza sottile e impalpabile. I tronchi, lunghi pali dritti come fusi, si trasformano improvvisamente nelle colonne e nei contrafforti di una cattedrale gotica, i rami possenti e intricati diventano i palchi delle corna dei cervi. Sui pendii del Monte Falterona riecheggiano l’ululato del lupo e il bramito del cervo, i vagiti ancestrali del bosco. Le foglie degli alberi sembrano prendere fuoco, tingendosi di giallo, di arancione e di rosso. Il ventre delle Foreste Casentinesi rimescola paganesimo e cristianesimo. L’eremita e monaco Sant’Ellero si ritirò in gioventù tra questi boschi; quando l’imperatore Teodorico, avendo esteso l’ordine di partecipare alla costruzione del suo palazzo a tutti gli abitanti della zona, venne a sapere che il giovane moncao rivoluzionario si era rifiutato di partecipare, solcò quei monti a cavallo. Quando l’animale però incontrò il giovane Ellero, avendone percepita la sacralità, chinò il capo e torse il corpo muscoloso in segno di sottomissione, piegando così bestia e cavaliere davanti all’araldo della nuova religione. Tra i faggi e gli abeti del Casentino sorgono due grandiosi esempi di architettura monastica. Il monastero di Camaldoli, sul versante Toscano, risale al 1046 ed è uno splendido esempio di architettura romanica citata da Dante nel Purgatorio. Il Santuario della Verna, risalente al XIII secolo, è il luogo dove si narra che San Francesco abbia ricevuto le stigmate.
Testo di Elena Brunello | Foto di Federico Torra RIPRODUZIONE RISERVATA © LATITUDESLIFE.COM
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